L’Italia non cresce senza l’Europa
di Pia Locatelli
Pochi giorni fa, il Parlamento europeo ha dato il via alla costituzione dell'Istituto europeo per l'innovazione e la tecnologia (IET): è un’altra realizzazione del 7° Programma quadro europeo per la ricerca e la tecnologia, a cui come parlamentare europea lavoro almeno dal 2005.
Ascoltiamo tutti una cronica lamentela, ormai abituale sulla stampa italiana: “il Paese non cresce”. Questo è vero, ma sono anche convinta che le ragioni siano sotto gli occhi di tutti, anche se pochi sembrano intenzionati a porvi mano.
Pure in questa campagna elettorale, anche da parte di molti dei candidati di spicco dei due partiti cosiddetti principali, sono state agitate idee obsolete, provinciali e fintamente patriottiche, secondo cui l’Italia deve ritornare competitiva con la Spagna, oppure la Cina o la Thailandia, oppure sollevare barriere protezionistiche, idee ispirate al ritorno ad un’economia a basso costo del lavoro e bassa tecnologia.
No, il ritardo dell’Italia è un ritardo nello sviluppo dell’economia della conoscenza, e nella coltivazione delle sue risorse umane. E questo si fa non contro l’Europa, ma con l’Europa, non contro la globalizzazione, ma interpretandola e governandola, E’ chiaro che l’Europa e l’Italia hanno bisogno di più ricerca. Più ricerca significa in primis più ricercatori e ricercatrici, gli obiettivi di Lisbona e di Barcellona del 3% del Pil per la ricerca comportano una presenza di otto ricercatori ogni mille presenze nel mercato del lavoro, cioè circa 700.000 nuove figure entro il 2010. Non ci arriveremo, e questo è già un guaio: attualmente la media europea è di 5,1 ricercatori/trici, mentre gli Stati Uniti sono a quota 8, il Giappone a quota 10. In Europa, il Belgio è a quota 6,9, la Gran Bretagna 5,6 e l’Italia 2,7.
Questo cattivo uso delle risorse umane, questo spreco dell’intelligenza, nella nostra economia, colpiscono specialmente le donne, che sono mediamente più scolarizzate ma meno occupate e meno retribuite degli uomini.
Qualcuno pensa ancora che questo sia un punto non centrale rispetto ai problemi dell’insieme del Paese. E’ vero il contrario. Abbiamo in Italia una priorità, la crescita: dal 2000 al 2006 siamo cresciuti in media dell’1,2% annuo. E per crescere il numero di ore lavorate e la produttività sono cruciali. Se si guarda al tasso di occupazione, che determina il numero di ore lavorate, abbiamo due problemi: i bassi tassi di occupazione delle donne e degli/delle ultracinquantenni. Secondo l’Ocse, questi due svantaggi rispetto alla situazione di altre economie sviluppate comportano una perdita di almeno il 10% del Pil.
Ecco perché le politiche di parità tra donne e uomini contribuiranno in modo significativo a rispondere alle sfide. Occorre poi rendersi conto che se fino a non molti anni fa era la famiglia a modellare i ruoli sociali e quindi le scelte professionali, oggi è il lavoro a modellare la famiglia. Nel 1960, il tasso di occupazione femminile era del 28% in Italia, del 26,1% in Norvegia. Nel 2000: Italia appena sotto il 40%, Norvegia 73,4%. L’Italia, insieme a Grecia e Spagna, ha anche i record più bassi di occupazione femminile e di fecondità: piaccia o non piaccia ai bacchettoni e ai maschilisti, le donne non fanno pochi figli quando portano i pantaloni sul lavoro, ma quando non possono contare su politiche sociali e su garanzie di pari opportunità, e allora devono sacrificare lavoro o famiglia, con esiti sempre dolorosi.
Qui entra in gioco il ruolo della spesa pubblica: che una certa retorica neoliberista vede come uno spreco, quando è invece (se orientata a servizi e obiettivi) una leva indispensabile per lo sviluppo: in Danimarca la spesa per l’infanzia è pari al 2,7 % del Pil; in Italia tutta la spesa per le famiglie (dove entra anche il discorso sugli anziani) è pari all’1,1%. Notate questo parallelo: in Italia l'1,1% del Pil in spese per le famiglie e servizi pubblici per bambini da 0 a 3 che accolgono il 9% dei bambini; in Francia 2,8% del Pil e 34% dei bambini; in Danimarca 3,8% e 48%.
In Italia c’è la tassazione su base individuale, ma qualcuno propone di andare verso il quoziente familiare. Non facciamolo! L’intervento fiscale più giusto potrebbe essere l’introduzione di un sussidio per le donne lavoratrici con figli. Occorre poi scardinare la percezione che il costo della fertilità sia esclusivamente femminile e rispettare i tempi di conciliazione fra vita familiare e professionale. Congedi di paternità obbligatori, per esempio. In Italia purtroppo la conciliazione fra tempi diversi della vita, siano essi familiari, professionali o della politica, continua ad essere considerata per lo più un affare privato. Le donne lo sanno bene, anche quelle che “ce l’hanno fatta”.
Più donne nel mercato del lavoro, maggiore partecipazione degli uomini alla vita familiare: un po’ più di tempo per tutti, un po’ più d’Europa in Italia.
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